Nel nostro deprimente Paese,
il vero intellettuale ha perso. Resta appartato. Non sposta un voto. Oggi è una
figura sconfitta. Ma la società ne ha bisogno. Anche se viene premiato solo
quell'oracolo consolatorio, con la tendenza all’appiattimento, che si ostina
a frequentare il salotto televisivo di turno. La provocazione di uno
scrittore
di Marcello Fois
14 marzo
2018 L'intellettuale
non può deontologicamente essere simpatico al potere in corso. Mi spingerei
fino a dire che uno dei compiti dell’intellettuale è di rappresentarsi, in
automatico, come antagonista. Come figura che non cede al ricatto della
consolazione, della lamentela, del luogo comune, del consenso.
Le società che funzionano, anche a fasi alterne, sono quelle in cui questa
precisa forma di antagonismo si esercita senza ricatti. È un mestiere come un
altro quello dell’intellettuale, solo un po’ più articolato, perché bisogna
sapere più cose senza vergognarsene, avere la tendenza a fare collegamenti
senza temere di svuotare le platee, partire dalla complessità senza
confonderla con la complicazione, avere il coraggio della parola astrusa o
del lemma inusuale.
L’intellettuale è quello che ricorda in quanti modi si possa dire la stessa
parola di cui tutti paiono accontentarsi. Sa che, per questo semplice
contributo, sarà tacciato di saccenteria, ma non si lascia intimidire,
accoglie su di sé il peso della povertà lessicale generalizzata e prova a
dimostrare che il linguaggio ha valore anche nella scelta, direi selezione,
dei termini e non solo nel tono di voce con cui si decide di esprimerli.
Prova a spiegare che “la consecutio temporum” migliora la frase, e il messaggio
conseguente, come una buona lezione di Pilates migliora il gluteo cadente;
che non è affatto vero che anche il figlio dell’ingegner tal dei tali,
deportato al MoMa durante la gita scolastica a New York, è in grado di
dipingere un quadro di Pollock o di Miró; che quando si parla, e si scrive,
per l’ennesima volta, di “silenzio degli intellettuali” bisogna controllare
di non essere un intellettuale che ha usato il suo spazio pubblico sulla
grande stampa nazionale per lamentare il silenzio degli altri senza aver
detto niente del suo silenzio.
Gli intellettuali, l’abbiamo appena visto, non spostano un voto. Nel nostro
Paese si ha una tendenza perversa a confondere la risonanza con la sostanza.
Ci siamo abituati a un’idea di intellettuale pubblico come oracolo
consolatorio, con la tendenza all’appiattimento, e quindi all’adeguamento,
della lingua e del pensiero. Quel tipo di “intellettuale” parla a comando e
quando sta zitto lo fa a ragion veduta. Il suo intento è di trovarsi nel
posto giusto nel momento giusto. Quasi sempre il salotto televisivo di turno.
Fa il polemico senza esserlo, è presente, lo vediamo tutti, quindi c’è. Ma si
muove sempre nei limiti di una performance in cui le parti sono già scritte.
Quel tipo di “intellettuale” si rappresenta come popolare, dando a quella
parola l’accezione più offensiva e umiliante. Concedendosi mani e piedi al
generalizzato adeguamento verso il basso, sminuendosi per affermare la
propria superiorità. Ci si rivolge al popolo, dunque si riduce la portata dei
concetti, il patrimonio delle parole, al minimo, disprezzando, di fatto,
l’interlocutore.
Tuttavia, come un buon politico, un buon genitore, un buon insegnante, anche
un intellettuale non dovrebbe avere nessun interesse per la popolarità,
sapendo, su di sé, di svolgere un compito a rilascio lento, spesso
lentissimo. Nel nostro deprimente Paese Pasolini e Bobbio, per fare due
esempi semplici, rilasciano ancora senza sosta. E servono come il pane.
L’intellettuale dovrebbe sempre tenere presente il peso, fisico e psicologico,
delle affermazioni che fa. Dire cose di cui si deve rispondere, significa non
usare parole qualunque ma mirare con precisione e dunque avere in mente un
preciso scopo. Chi spara nel mucchio, chi non si prende un po’ di tempo per
mirare, chi non è in grado di selezionare i propri interlocutori non è un
intellettuale. È un’altra cosa, magari anche migliore, ma non un
intellettuale.
La parola stessa, intellettuale, che noi tendiamo a confinare nella lista
nebulosa dei termini a libero accesso come poeta, scrittore, pittore, attore,
cantautore, politico, amministratore, direttore di salone del Libro, è invece
assai poco accogliente. A differenza di quanto sostengono taluni nessuna di
queste funzioni è spaziosa e capiente. Per ognuna di esse occorre attitudine,
studio, fatica, coraggio.
Non è affatto vero che intellettuali, attori, pittori, poeti, cantautori,
politici, amministratori, direttori di Saloni del Libro, possano esserlo
tutti. Si può millantare di esserlo, si può persino essere nominati, eletti,
rappresentati, pubblicati, senza che questo autorizzi a definirsi tali.
Gli intellettuali hanno l’onere di spiegare che la linea del consenso, ai
fini dell’incidere sul proprio tempo, è assolutamente ininfluente. Il video
su Youtube di un cane a cui vengono applicati quattro piccoli doposci per
farlo zompettare sulla neve, e del suo conseguente, per alcuni divertente,
disagio nel muoversi, ha ottenuto oltre quaranta milioni di visualizzazioni.
E allora? Basta accendere la televisione per percepire con chiarezza quanta
differenza ci sia tra la professionalità e l’improvvisazione. Sempre che la
si voglia percepire.
L’assenza di intellettuali in una società fa in modo che questa percezione si
attenui fino a scomparire, fino a diventare un atout anziché un deficit.
Permette a chiunque di citare Calvino e la sua presunta leggerezza a
sproposito, per esempio. Senza il rompiscatole che ti spiega che tra Valeria
Marini e Valeria Moriconi, che pure hanno calcato i palcoscenici del nostro
Paese, c’è una differenza abissale, nonostante l’assonanza onomastica, la
nostra memoria collettiva è più povera. E se due o tre persone, dopo la
lettura paziente di questo appassionato sproloquio, vorranno digitare su
Google il nome Valeria Moriconi, vorrà dire che la mia giornata da
intellettuale avrà avuto un senso.
L’intellettuale potrebbe persino azzardarsi a spiegare che in campo
editoriale i successi sono quelli che sono; che chi esamina le situazioni in
corso come se fossero le uniche determinanti per il futuro non ha letto abbastanza;
il dibattito sulla “dittatura degli editor” che questa rivista ha
recentemente ospitato, per esempio, mi pare un dibattito importante, ma, in
qualche modo, pseudointellettuale. Perché chiude in una formula data, direi
un po’ limitata, un discorso assai più articolato e, lasciatemelo dire,
eminentemente politico con tutta la complessità che ne consegue. Ma se la
polemica si limita a “gli editor costruiscono i successi editoriali” non mi
interessa, lo dico senza mezzi termini.
Vorrei ricordare che non troppo tempo fa i bestseller in questo Paese erano
Guido da Verona e Carolina Invernizio, vi dicono niente “Sciogli la treccia”,
“Maria Maddalena” o “Il bacio di una morta”? Cercateli su Google. Non posso
credere che persone colte e intelligenti confondano il mercato editoriale con
la letteratura: sono sempre stati insieme, hanno sempre convissuto. Hanno da
sempre svolto compiti diversi. Elsa Morante e Nantas Salvalaggio,
coesistevano a pochi centimetri negli scaffali delle librerie, come John
Grisham e Joseph Roth. Persino gli U2 e i Jalisse sono stati coevi nella
storia della musica recente. Dunque? Quale sarebbe la materia del contendere?
Non ci sono mai stati i tempi in cui si pubblicavano solo i migliori, ma
quella sensazione ci è rimasta proprio perché, nel tempo, sono rimasti solo i
migliori. Tutti gli altri, anche i più famosi del momento, anche i vincitori
del vincibile, anche i campioni di incasso e i campioni di presenzialismo,
sono definitivamente scomparsi. Malaparte vive, Pitigrilli è morto. E
Pitigrilli contava come Fabio Volo.
Discutere come se ci si confrontasse contro un nulla di fatto, come se
fossimo all’anno zero, fa un torto a tutti. A chi parla e a chi ascolta.
Dire che il più grande scrittore italiano, o francese, o australiano eccetera,
coincide col più venduto, è una sciocchezza sesquipedale, che “i più grandi
scrittori” in questione contestano per primi. Ma affermare che a causa del
loro successo, pilotato, la scrittura muore è altrettanto sciocco. Non sono
gli editor frustrati o i Fabio Volo che rovinano la letteratura, anzi spesso
la sostengono, perché per ogni Volo che si stravende, per ogni Franchini che
si inventa un titolo geniale, si può “rischiare” di pubblicare un Michele
Mari o una Laura Pariani. Per ogni Kerbaker che può fare affermazioni di una
superficialità sconcertante, che umiliano lui per primo e tutti gli ospiti,
molti dei quali fior di intellettuali, del suo “frizzante e leggero” Tempo di
Libri 2018, c’è una Chiara Valerio che può svettare per compostezza, dignità
e competenza.
Per fortuna l’intellettuale sa bene che la gara che sta facendo non si può
vincere oggi. Oggi ha già perso.
L’intellettuale dovrà tenere conto del fatto che tutto quello che si saprà
dei suoi tempi dipenderà dal suo grado di resistenza. Dovrà esserci quando
gli altri non ci saranno più ed esercitare il suo presente alla luce di
questa importantissima responsabilità.
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Chi punta il dito contro
l'intellettuale danneggia l'intera società. Il suo ruolo è negato dall’accusa di snobismo e privilegio.
Ma la cultura non è un gioco di prestigio o uno slogan ben confezionato
di Evelina Santangelo
14 marzo
2018
Il caso potrebbe essere di quelli da archiviare in fretta come uno
sproloquio surreale, se non chiamasse in causa figure ed enti culturali di
grande rilievo, come l’Associazione italiana editori.
In breve. Un giornalista, e dunque uno che in linea di principio rientrerebbe
tra chi in una società svolge un ruolo intellettuale, intervista il direttore
artistico della Fiera dell’editoria di Milano, bibliofilo, docente
universitario, organizzatore culturale. Tema: Non c’è nessuno che possa fare
più danno alla Cultura di un intellettuale. Che uno già, dinanzi a una
situazione così paradossale, avrebbe subito voglia di chiudere la questione
con le parole di Mr Martin della “Cantatrice calva” di Ionesco:
«Dimentichiamo, darling, tutto ciò che non è accaduto tra di noi». Perché poi
l’intervista è un botta e risposta per dimostrare la superiorità del fare
manageriale sul fare intellettuale, dove il fare manageriale è pop e il fare
intellettuale è snob. Un po’ come i film noiosi evocati tra i must della
sinistra e le scarpette da tennis un po’ di destra del Gaber di
Destra-Sinistra. Dunque, festa per i 110 anni dell’Inter come specchietto per
allodole-non-lettrici. Una voce che da un altoparlante spara L’infinito
oltretombale del Leopardi come versione pop-distopica della Cultura alta.
«O parole, quanti delitti si commettono in vostro nome», scriveva Ionesco. E
qui sembra che il delitto più grande coincida con la parola «intellettuale».
Basta riattraversare alcuni momenti capitali di cosa ha significato ed è
costato essere intellettuali per capire che il sospetto non è infondato. Se è
abbastanza chiaro a tutti che il termine ha a che vedere con attività
riguardanti l’ingegno umano, non è altrettanto evidente se quell’ingegno
produca progresso spirituale, artistico, culturale (e, in certi casi, anche
materiale) o solo scompiglio. Quasi sempre l’ingegno umano, nelle sue più
alte e azzardate manifestazioni, finisce per scompaginare pensieri e visioni
consolidate, superare limiti invalicabili.
Galileo Galilei era uno scienziato, un uomo che usava intelletto, raziocinio,
immaginazione. Se le sue ricerche e scoperte gli sono costate processi e
umiliazioni è stato perché avevano conseguenze sul piano intellettuale e
culturale, ribaltavano il modo di pensare l’Uomo, la Terra e il Potere.
Diversamente nessuno si sarebbe preoccupato di cosa girasse intorno a cosa,
se la terra o il sole. Lo stesso vale per Giordano Bruno, accusato di eresia
in virtù delle sue concezioni teologiche e filosofiche. Fu anche e proprio
per l’intuizione vertiginosa di mondi infiniti in uno spazio infinito che
pagò con morte atroce la colpa d’insinuare smottamenti nella dottrina. E
Dante? Non pagò forse con l’esilio quella sua indipendenza di pensiero che
innerva i versi della Commedia?
Questi timori che da sempre accompagnano la figura dell’intellettuale nel
momento in cui può incidere nel pensiero collettivo oggi si tingono di una
nuova patina, più sbarazzina: la necessità di andare incontro alle
aspettative di svago ed emozioni che sembrano profilarsi come uniche
alternative alla fatica di vivere. E qui, il termine «intellettuale» pare
evocare un modo di fare cultura, quello di un’intera generazione che, dopo
gli orrori della Seconda guerra mondiale, per immaginare un futuro possibile
tra macerie materiali e spirituali, indentificò lo scrittore o l’artista con
un ruolo civile, facendone portatore di una visione del mondo, di
un’emancipazione collettiva ma traducendo questa urgenza nel ruolo di una
élite con i suoi riti e le sue parole d’ordine, al punto che tanti (Pasolini,
in primis) ne patirono orizzonti limitati o allineamenti.
Credo che su questo modo d’intendere il fare intellettuale oggi si alimenti
ad arte il sospetto che grava sulla figura dell’intellettuale (la cui
accezione implica prevalentemente un’appartenenza più o meno di sinistra
insieme a un’idea di snobismo, cerebralismo e privilegio).
Nei “Quaderni dal carcere”, un pensatore libero, e per questo buttato in
galera, come Antonio Gramsci parlava di un nuovo intellettuale organico alla
società, homo faber e homo sapiens insieme, spingendosi a scrivere: «Ogni
uomo infine, all’infuori della sua professione, esplica una qualche attività
intellettuale… partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole
linea di condotta morale, contribuisce a sostenere o a modificare una
concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare». Una visione
che implicava idee dirompenti: responsabilità collettiva, fiducia nell’uomo
come parte attiva di una società.
Mi viene da pensare a quanti uomini e donne oggi svolgono attività di
ingegno, coltivano saperi al servizio di una collettività. Penso ai festival
piccoli e grandi diffusi nel nostro Paese, anche in luoghi difficili o
sperduti (come il cuore della Barbagia dove accade L’Isola delle Storie di
Gavoi). Penso ai circoli di lettori in aree anche remote. Penso a
trasmissioni curate da intellettuali che creano attenzione intorno alla
lingua, ai libri: Fahrenheit, La lingua Batte, Quante Storie. Penso a quanti
stanno investendo energie nel creare un tessuto diffuso di piccola editoria
con punte di prestigio come NnEditore.
Penso a blog come @CasaLettori con i suoi 62.000 follower. Certo, tutto
questo convive col suo contrario, il narcisismo social, il cretinismo che
accumula like, il dilettantismo che si fa mestiere, un’orizzontalità che non
è spazio di partecipazione democratica ma arroganza di chi pretende il
diritto di parola e di ascolto senza prendersi la briga di dare solide
fondamenta al proprio pensiero. E convive con il cinismo di chi specula su pregiudizi
e ignoranza, anzi li alimenta, grazie a un mezzo potentissimo come Internet,
non diversamente da quel che accadde con la Radio nelle mani di gente come
Goebbels, che scrisse appunto: «La vera radio è propaganda. Propaganda
significa combattere in ogni campo di battaglia dello spirito, generando,
moltiplicando, distruggendo, sterminando, costruendo, disfacendo»,
alimentando quel che Hannah Arendt chiama il «caos delle opinioni».
In un momento in cui è difficile orientarsi tra fake news e pressappochismi
che hanno la posa d’intellettualità, e tra le spirali di un mercato in cui è
difficile scegliere, dichiarare o avallare la dichiarazione che gli
intellettuali fanno danno alla Cultura significa screditare uomini e donne
che stanno investendo energie e ingegno in un progetto culturale diffuso
contribuendo a costruire una concezione di cultura e società che non si
accontenti di pastoni scimmiottanti le tv commerciali o un’idea di pop
ridotto a roba frizzantina, diffondendo così l’idea che la cultura sia un
gioco di prestigio o uno slogan ben confezionato.
Se c’è una cosa che dovremmo tenere a mente tutti è che ogni progresso umano,
scientifico, culturale, sociale, spirituale e anche materiale, lo dobbiamo a
intellettuali, gente di ingegno che, come Leopardi, si è messa in solitudine
pensosa davanti a un colle, un orizzonte, e tenendo fisso lo sguardo su quel
limite ha saputo immaginare mondi capaci di andare oltre, anche a costo di
esili e umiliazioni. Negare questo ruolo significa essere i peggiori nemici non
solo della cultura ma della società tutta, operare per ridurla a un’entità
supina e inebetita, per farne quel che più fa comodo al potere di turno.
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